sabato 25 febbraio 2012

Autenticità e potenza

5 giorni di febbraio passati nella nostra bella Sardegna, dove ti dicono che, solo se sei consapevole di essere in un continente, puoi capire l’essenza della terra che pesti quando sei là.

Erano gli ultimi giorni del carnevale, festa che oltre ad essere estremamente sentita conserva in sé antiche tradizioni che si tramandano da tempi medioevali o addirittura precedenti. Ci sono almeno 20 paesi che celebrano il carnevale secondo usanze tra loro molto diverse.
Con altri amici inUTILI, grazie a Stefan Moritz, abbiamo partecipato a quello di Bosa.

Il paese che si trova sulle rive del fiume Temo, 2 km dal mare, ha un centro storico con alti antichi palazzi e stretti vicoli, strade di ciotoli.
Dalla sponda del fiume, dalla parte del centro storico, si vede un bell’esempio di archeologia industriale, sono le vecchie concerie, costruite nella prima metà dell’Ottocento lontano dal centro abitato per via dei cattivi odori prodotti durante le fasi di lavorazione delle pelli, ma abbastanza vicino al fiume per l’approvvigionamento idrico e per essere facilmente raggiungibili dagli operai.

Le persone sono cordiali e allegre, già dal sabato sera, il “nostro” carnevale è iniziato alla grande. Tra i vicoli e il corso principale persone di tutte le età (pochissimi turisti) vestite con costumi tra i più disparati, passeggiavano allegramente scherzando tra loro e con noi. Noi non eravamo da meno con parrucche e abiti realizzati il pomeriggio con sacchi dell’immondizia neri, puntatrice, carta crespa, tulle e pluriball ci siamo assolutamente amalgamati a quella meravigliosa situazione.

Nei vicoli oltre a qualche gruppo che suonava, tutti avevano una grande voglia di divertirsi e di condividere: gli abitanti aprono per quella sera le loro cantine, offrendo ciò che hanno di buono della loro terra. Primo tra tutti il vino rosso, di solito un misto di cannonau, sangiovese e cabernet sauvignon, poi purceddu, bottarga, pentoloni fumanti in cui galleggiavano piedini di maiale e varie frattaglie, ricotta, salsicce, salumi e le irrinunciabili fave.
Durante quella notte vengono così abbattute le differenze sociali e le cantine dei ricchi sono aperte ai poveri e viceversa.
Un grande clima di festa che è durato per tutta la notte.

Il prezioso vitigno prodotto nella zona è il Malvasia. Ci sono dei viticoltori che lo esportano in tutto il mondo.
Ho conosciuto una persona di grande passione: Emidio Oggianu un ex ferroviere con una chicca di vigna che cura con rara passione. Là le viti vengono tenute molto basse, per evitare che il Maestrale le peli completamente. Lui ogni anno opera quella selezione dei grappoli sulle viti, lasciandone al massimo 3/4 per vite, che gli permette di ottenere una Malvasia, intensa, profumata dal sapore di mandorle che ho avuto il piacere di assaporare grazie alla sua gentilezza.
“Alla fine io sono solo un capo stazione in pensione - ci dice Oggianu - non sono né un viticoltore di professione, tanto meno un enologo, ma penso che un vino unico come la Malvasia di Bosa abbia bisogno di tutte le cure possibili per evitare che un patrimonio enologico di questa entità rischi l’estinzione.” Ed è grazie a questa sua convinzione che nel 2006 ha ricevuto i Tre Bicchieri della Guida Vini d’Italia del Gambero Rosso.

Ho conosciuto Vanna Mazzon, grande promotrice dell’Azienda Columbu che ci ha accolti nella sua cantina facendoci assaggiare una Malvasia ossidata davvero particolare, donna potente, di grande dote oratoria, piena di passioni che ama condividere.

Zarelli ci ha fatto degustare tutta la sua produzione, da una Malvasia frizzante a un vino, l’Inachis, che ha vinto un premio come migliore vino da pesce nel 2011. A me è piaciuto molto!

Domenica 19 febbraio siamo stati a Mamoiada, si trova nel cuore della Barbagia di Ollolai. Il territorio è ricco di sorgenti naturali, corsi d’acqua, terreni a pascolo e a colture, siamo in mezzo alle montagne più antiche d’Europa. Lì si svolge, sembra sin da epoca nuragica, il carnevale dei Mamuthones, che potenza ragazzi. Grande autenticità, grande pathos.
Abbiamo anche assistito alla solenne vestizione di Mario, pastore barbaricino, che ci ha servito un pranzo rigorosamente di pecora, leccornie per stomaci forti.
Mario munge il suo gregge 2 volte al giorno, ogni volta ci mette 1 ora e mezza!

Parlando con una persona che ha collaborato con ricercatori antropologi, sembra che in epoca antica gli abitanti della zona avessero catturato dei saraceni e che li avessero poi portati in processione in paese facendoli vestire da bestie, indossando i loro vestiti.
20/30 uomini vestiti con grandi gilet di pecora nera, pesanti campanacci sulla schiena, maschera e fazzoletto neri, passano in parata dividendosi in 2 file nella strada principale del paese facendo una danza con una serie di passi cadenzati, accompagnati dagli Issohadores: casacca rossa pantalone bianco, maschera bianca e scialle in vita, hanno delle funi con le quali catturano simbolicamente le donne che passano.

Una capatina anche a Torre Foghe, dove c’è un panorama mozzafiato, dall’alta scogliera un mare tumultuoso ci faceva sentire il rumore delle sue acque agitate. Il vento forte e nubi plumbee all’orizzonte dalle quali filtravano i raggi del sole sembravano tagliati con la forbice.

Il momento clou del carnevale di Bosa è il martedì grasso.
“Il “martedì grasso” rappresenta il culmine dei festeggiamenti. S’inizia la mattina con il lamento funebre de S’Attittidu. Le maschere indossano il costume tradizionale per il lutto: gonna lunga, corsetto e ampio scialle nero; ogni maschera porta in braccio una bambola di stracci o qualcosa di simile che spesso ha un riferimento al sesso.
Le maschere, con voce in falsetto, emettono un continuo lamento, S’Attittidu appunto, e chiedono unu Tikkirigheddu de latte per ristorare il bambino che è stato abbandonato dalla madre dedita ai bagordi del Carnevale. La notte del martedì tutti indossano la maschera tradizionale bianca (solitamente un lenzuolo per mantello e una federa per cappuccio), per cercare il Giolzi Moro.
Il Giolzi era ed è la caccia al Carnevale che fugge e si nasconde nel sesso; I Giolzi cercano Giolzi illuminando con un lampioncino la parte puberale delle persone che incontrano gridando: Giolzi! Giolzi! Ciappadu! Ciappadu! (l’ho preso). La festa si conclude con i roghi che bruciano enormi pupazzi nelle vie e nelle piazze del centro della città.”
Ragazzi: sono morta dal ridere!
A parte l’impatto iniziale che mi ha imbrazzato molto, gruppi di persone vestite di nero ti chiedono il latte dal tuo seno, si piegano all’altezza del tuo pube proclamando filastrocche incomprensibili, hanno bambolotti, pupazzi, simboli fallici di ogni genere coi quali simulano orge e urlano.
E’ stato davvero esilarante, una folla in puro, sano, delirio collettivo.

Sembra che questi riti abbiano riferimenti riti dionisiaci, decisamente sessuali.

Tra i ristoranti dove siamo stati, “Sa Pischedda” è stato per me il migliore. Ottimo servizio, ottimi piatti in un ambiente raffinato recentemente ristrutturato. Antonello, il proprietario è una persona molto cordiale.

Che dire:
EVVIVA LA SARDEGNA!

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